San Giacomo 1250 m, è la più alta frazione del comune di Entracque. Un luogo suggestivo nel cuore del Parco Alpi Marittime caratterizzato da boschi di faggi secolari, torrenti e tumultuose cascate cui fanno da sfondo i ghiacciai del Monte Gelas. Il fascino particolare che contraddistingue la località è dovuto anche alla sua storia legata al Colle di Finestre per secoli tra i più importanti collegamenti attraverso le Alpi e alla presenza della reale casa di caccia frequentata dai Savoia.
È amore a prima vista. Il colpo di fulmine tra Casa Savoia e le Alpi Marittime scocca il 29 agosto 1855, in occasione di una visita al paese di Entracque dei principi Vittorio Emanuele e Ferdinando, duca di Genova. Il giovane Vittorio Emanuele è un appassionato cacciatore di camosci (e, pare, di belle pastorelle) e rimane affascinato dall’abbondanza (degli uni e delle altre) in questo angolo di montagne ai confini del regno. Le Marittime offrono al futuro re d’Italia selvaggina abbondante, scorci incantevoli, un clima salubre e il salutare diversivo delle acque di Terme di Valdieri. Una volta incoronato, il re non chiede: dato a intendere il suo interesse a fare della Valle Gesso uno dei suoi distretti venatori, ottiene dai comuni di Valdieri e di Entracque la concessione esclusiva dei diritti di caccia, e, successivamente, anche di pesca, su gran parte dell’alta Valle Gesso. Nasce così, nel 1857, la «Riserva reale di caccia di Valdieri e Entracque».
Nella realtà montanara e periferica della Valle Gesso, l’arrivo dei sovrani di Casa Savoia è un autentico ciclone. La rinuncia alla caccia e alla pesca costituisce un grande sacrificio per la gente della valle, d’altra parte il re è disposto a pagare bene il suo privilegio: nelle casse semivuote dei comuni di Entracque e Valdieri arrivano migliaia di lire all’anno da spartire tra poveri e militari sotto le armi. Senza contare gli affitti degli alpeggi, i contributi straordinari per realizzare strade carrozzabili, mulattiere, sentieri e ricoveri in quota - infrastrutture che, una volta disertate dai reali cacciatori, vengono utilizzate dagli abitanti della valle per gli spostamenti e per la gestione dei pascoli.
Molti ricavano poi un vantaggio diretto dalla presenza dei Savoia: c’è chi viene assunto come guardiacaccia nella Riserva, chi beneficia delle frequenti elemosine dei sovrani e chi è coinvolto a vario titolo nell’indotto generato dai soggiorni di Casa Savoia e del suo seguito. Realizzare e curare gli alloggi reali vuol dire infatti assumere artigiani e manovali, mentre soddisfare i desideri e le necessità personali della famiglia reale è il compito di uno stuolo di servitori, camerieri, giardinieri, domestici, negozianti e tuttofare.
Nel 1864, definitivamente conquistato dal fascino della Valle Gesso, Vittorio Emanuele II fa costruire in prossimità di Sant’Anna di Valdieri una palazzina destinata a diventare il “quartier generale” della famiglia reale fino agli anni ‘30. Con il tempo, si aggiungono le residenze di San Giacomo di Entracque e la Palazzina di caccia del Valasco, forse la più pittoresca. Concepita come residenza adatta anche a soggiorni prolungati, viene progettata già nel 1868. La costruzione, annunciata da lontano dalle caratteristiche torrette merlate in stile neomedievale, è posta proprio al centro del verde pianoro del Valasco, in una cornice da cartolina. Molto amata e fortemente voluta da Vittorio Emanuele II, la palazzina è stata nel corso del tempo abbandonata, destinata al ricovero di soldati e pastori, incendiata più volte e, infine, restaurata. Oggi è un insolito rifugio alpino, il rifugio Valasco, ideale per un pernottamento o una semplice sosta tra mura prestigiose e cariche di storia.
Tre re e una regina
Tre generazioni di regnanti si sono succedute in Valle Gesso. Vittorio Emanuele II, “il re gentiluomo” e cacciatore, a suo agio fra i monti e amato dai sudditi;
Umberto I, “il re buono”, cacciatore meno appassionato del padre e frequentatore poco assiduo della valle; Vittorio Emanuele III, il re meno cacciatore di tutti. Più popolare del marito era Elena
di Montenegro, regina generosa e leggendaria pescatrice di trote.
I re e le regine di casa Savoia hanno lasciato un’impronta profonda nelle Alpi Marittime: non soltanto perché ne hanno segnato il territorio con palazzine, chalet, ricoveri, imposte di caccia e chilometri di sentieri e mulattiere che oggi fanno la gioia degli escursionisti, ma anche perché hanno impresso ricordi ancora vivi nella memoria collettiva. Senza contare che due positivi “effetti collaterali” dell’istituzione della Riserva sono stati quelli di garantire la sopravvivenza dei camosci e di promuovere la reintroduzione degli stambecchi che ora popolano il Parco delle Alpi Marittime!
Le palazzine reali di San Giacomo
La palazzina reale di caccia e la caserma Principessa Elena, ora di proprietà di enti religiosi, furono costituite intorno al 1870 da Vittorio Emanuele II per i suoi soggiorni all'interno della riserva reale di caccia.
La prima, con il bel porticato a fasce orizzontali nei colori di Casa Savoia, costituiva la residenza reale vera e propria; la seconda, in origine a un solo piano, ospitava le scuderie per 36 cavalli. Quest'ultimo edificio venne poi ceduto all'amministrazione militare, che nel 1897 lo ampliò per trasformarlo nella caserma Principessa Elena, in grado di ospitare un presidio di 150-200 uomini, 5 ufficialie 10 quadrupedi.
Un legame impalpabile, di cui il nome custodisce la memoria, unisce il paesino di San Giacomo di Entracque alla celebre città spagnola di San Giacomo di Compostella. Nella località della Valle Gesso, i passanti e i pellegrini nel Medioevo trovavano un rifugio e ricevevano l’ospitalità di un monaco dell’abbazia di Pedona, per poi proseguire la loro strada verso il Colle di Finestre. Mentre alcuni si fermavano al Santuario della Madonna di Fenestre, i più temerari continuavano verso i Pirenei e verso altre contrade. L’itinerario attraverso il Colle di Finestre, probabilmente, era una via romana secondaria, diventata col passare dei secoli una delle strade commerciali più importanti delle Alpi meridionali per il sale e i tessuti. Un percorso attraverso le Alpi sulla quale nei secoli sono passati Papi, principi, eserciti… Nel settembre 1943 fu una delle vie di fuga degli ebrei ospiti della residenza forzata di Saint Martin Vésubie. Per sfuggire alle persecuzioni naziste uomini e donne di ogni età, bambini scapparono in Italia alla ricerca di un rifugio e della salvezza. Molti riuscirono a trovarli grazie all’aiuto delle popolazioni locali per qualcuno, invece, il destino fu quello della deportazione nei campi di concentramento tedeschi.
"Tant que Pagari paghara lo Pas passara, quant Pagari paghara plus lo Pas passara plus" (finchè Pagarì pagherà il passo si passerà, quando Pagarì non pagherà più, il passo non si passerà più). Così recitava un detto di Saint-Martin-Vésubie, sintetizzando icasticamente la vita e le vicissitudini di Paganino dal Pozzo, figura di imprenditore moderno, nello stile e nell'azzardo, nel successo come nel crollo.
Di famiglia originaria di Alessandria, poi stabilitasi a Cuneo, Paganino divenne intendente delle gabelle sabaude a Nizza. Negli anni Trenta e Quaranta del Quattrocentofu costruttore e manutentore di strade e valichi nelle Alpi Marittime, i cui cantieri erano alimentati anche da due segherie fatte costruire apposta a Valdieri e Entracque. Ma la sua popolarità e la sua rovina, nonchè l'immortalità del nome, fissato nella toponomasica, furono causate da un'impresa che fin dalla sua ideazione si dimostrò ardita: nel 1453 Paganino dal Pozzo ottenne dal duca Ludovico di Savoia di poter realizzare un tracciato più breve per il trasporto del sale dal Nizzardo alla Valle Gesso e di lì alla piana cuneese. Avrebbe dovuto costruire il percorso a sue spese e curarne la manutenzione affinchè potesse rimanere transitabile per nove mesi all'anno. In cambio otteneva la riscossione in privato della gabella.
Il tracciato progettato dall'imprenditore prevedeva il transito agli oltre 2800 m del colle che un tempo era chiamato anche Passo del Clapier, dei Gelàs di Belvedere o Colle Veia, e che in seguito all'impresa di Paganino divenne Pas di Pagani, Paganin, Pagarè o Pagarì, assumendo in tal modo il soprannome poco lusinghiero (anche se probabilmente non scevro da amministrazione) che i valligiani dei due versanti delle Alpi Marittime avevano dato al gabelliere. L'etimologia di "Pagarì", che è chiaramente da ricondurre al verbo "pagare" (in francese payer), fa infatti riferimento al diritto di pedaggio che spettava all'intendente delle gabelle per il passaggio delle merci poste sotto la propria cura e sorveglianza. Ma il medesimo soprannome, attorno al quale ruota il gioco di parole che compone il detto di Saint-Martin-Vésubie, rivela tutta la debolezza dell'iniziativa di Paganino, che solo dando fondo alle proprie finanze avrebbe potuto onorare l'accordo stretto con il duca Ludovico. E in effetti la storia dell'impresa seguì le predizioni dei montanari: l'altitudine, la mancanza di pascoli e altri fattori ambientali come l'espansione del ghiacciaio della Maledia decretarono alla rovina Paganino dal Pozzo, che finì la vita in miseria. Dopo un'ottantina di anni alla morte del suo ideatore, anche l'itinerario per il Colle di Pagarì fu definitivamente abbandonato.
Tratto da "I SENTIERI DELLA STORIA" di Roberto Pockaj e Stefano Delfino